L’Italia che affonda

4.1 - L’università italiana sotto tiro


S’è visto nei quadri precedenti che secondo i neoliberisti (o almeno di quelli che più hanno influenzato il dibattito italiano e i cui argomenti sono stati poi ripetuti a destra e a manca) sostengono che non sono necessarie, in Italia come in Europa, più risorse per la ricerca, in quanto quelli stanziati sono già sufficienti. Il discorso si fa ancora ancora più critico quando si viene a toccare il tema dell’università; il nesso è del resto facile, visto che in Italia l’università è il principale organismo pubblico in cui viene effettuata la ricerca scientifica, visto che nel 2009 raccoglie il 70% di tutta la spesa pubblica per R&S erogata dalle Amministrazioni Centrali (secondo il Notiziario statistico del MIUR, 1/2010). Di fronte alla tipica lamentazione dei professori universitari europei (e ovviamente italiani) circa la mancanza di risorse, Alesina e Giavazzi così rispondono: «Primo, non è vero. Ma perfino se lo fosse, buttare più denaro nelle università senza prima cambiare le regole arcaiche che le governano significherebbe aumentare gli sprechi e i privilegi, non migliorare la ricerca. Dare più risorse a queste università aumenterebbe solo il potere, il prestigio e le risorse delle lobby dei professori universitari più anziani che impediscono una vera concorrenza basata sul merito» (Alesina & Giavazzi, op. cit., p. 95).

Dunque, innanzi tutto non sarebbe vero che manchino le risorse alle università; in secondo luogo, viste le condizioni attuali delle università italiane, dare più soldi sarebbe - come ha sostenuto in un colloquio privato col sottoscritto un altissimo esponente istituzionale del precedente governo Berlusconi - “gettare soldi nel forno”. Si comprende come siano importanti queste affermazioni e le tesi sostenute, che spiegano molte delle misure assunte recentemente in Italia sull’università e che non concernono solo la materia dei finanziamenti. Eppure per l’auspicata edificazione della società della conoscenza l’UE, nell’ambito della Strategia di Lisbona, ha assegnato, sin dal 2003, alle università un ruolo centrale, vedendo in esse un settore strategico per la creazione del capitale umano e il centro di un virtuoso meccanismo che crea nuova conoscenza e quindi rende possibile innovazione e sviluppo. Una idea del resto ricorrente, visto che negli USA l’università è stata posta al centro - sin dal secondo dopoguerra - del processo di sviluppo e di ricerca del primato tecnologico a livello mondiale.

Sebbene il governo italiano nei suoi documenti ufficiali abbia sempre aderito alle indicazioni europee e a parole se ne faccia promotore nei documenti ufficiali, tuttavia nei fatti ha proceduto a drastici tagli del finanziamento del sistema di ricerca nel suo complesso e dell’università in particolare. Infatti a differenza dei paesi europei che hanno deciso di puntare sugli investimenti in capitale umano e R&S, l’Italia ha tagliato più fondi per la formazione universitaria. Tali riduzioni sarebbero giustificate se fosse vero quanto sostenuto da alcuni studiosi e dall’opinione pubblica influenzata da massmedia male informati. Una delle fonti di tale informazione, che negli ultimi anni ha avuto una larga eco per le sue tesi apparentemente controcorrente, è il libro di Roberto Perotti, L’università truccata (Einaudi, Torino 2008), i cui dati (ripresi da sue precedenti pubblicazioni) non a caso vengono utilizzati da Alesina e Giavazzi per sostenere la tesi (che è anche quella di Perotti) circa l’adeguato finanziamento delle università italiane, che addirittura avrebbero più soldi di quelle britanniche, considerate l’eccellenza in Europa. I dati di Perotti dimostrerebbero infatti che (a) la spesa in dollari per studente è superiore a quella del Regno Unito; (b) che la spesa complessiva per personale accademico è molto più elevata che nel Regno Unito; (c) che non è vero che ci sono pochi docenti rispetto agli studenti (rispetto al Regno Unito); (d) che le università nel Regno Unito producono più ricerca a un costo inferiore che in Italia, per cui i loro ricercatori sono due volte più produttivi di quelli italiani. Onde la conclusione: «La mancanza di risorse non è la ragione principale del ritardo delle università italiane» (Alesina & Giavazzi, op. cit., p. 97), per cui gli appelli in Europa a un maggior finanziamento statale sono fuori luogo. Invece, «molto più importante che buttare ancora più denaro nelle università pubbliche è una riforma della struttura degli atenei che regoli l’attività di insegnanti e studenti» (ivi, p. 97; cfr. anche p. 203). Come? Demolendo i 4 principi sbagliati su cui le università si reggono, ovvero: (1) differenziando gli stipendi dei docenti non solo in base all’anzianità, ma alla produttività; (2) facendo pagare i costi dell’università non ai contribuenti, ma agli utenti (per evitare che i poveri paghino l’università frequentata dai ricchi); (3) eliminando il monopolio pubblico e la centralizzazione dell’istruzione universitaria, aumentando così la concorrenza tra atenei grazie al mercato: la chiave di tutto sarebbero gli incentivi.

Quadro 4 - Miti e tristi realtà dell’università italiana

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Note e osservazioni