L’Italia che affonda

3.24.1 - La spesa per ricerca scientifica in Italia


L’opinione pubblica italiana sembra avere una percezione chiara dell’importanza della ricerca scientifica, forse più di quanto non l’abbiano i politici: il 70% degli italiani ha un atteggiamento generale di fiducia verso la scienza e pensa che i benefici positivi da essa apportati superino i possibili effetti negativi, come testimonia il generale favore all’utilizzo del “cinque per mille” a sostegno della ricerca, ritenuto un modo efficace di contribuire ad essa. Il nodo più critico concerne non tanto la fiducia nella scienza tout court, ma l’organizzazione dell’attività scientifica e la gestione delle priorità e delle risorse, in quanto si sospetta che il mondo della ricerca possa essere governato da logiche di mercato e interessi economici (un italiano su due è convinto che ciò posso avvenire) (cfr. V. Arzenton, M. Bucchi (a cura di) Annuario Scienza e Società, Observa – Science in Society, il Mulino, Bologna 2009, pp. 17-24). Gli italiani sono dunque disposti persino a pagare di propria tasca per finanziare la ricerca che ritengono utile ed efficientemente condotta, quando in particolare essa sia diretta ad organizzazioni ed enti di ricerca che godono di ampia fiducia o presentino una “faccia” pubblica rassicurante.

Tuttavia da alcuni anni una campagna di stampa assai virulenta ha diffuso tra la gente l’idea che le università - che, come meglio vedremo nei “quadri” successivi, sono il maggiore ente di ricerca del paese - sono un covo di nullafacenti e di nepotisti buoni solo a reclamare denaro per alimentare le proprie spese parassitarie; che vi siano troppi laureati e diplomati che restano disoccupati e che quindi istruzione e ricerca siano settori nei quali si può e si deve tagliare in considerazione delle ristrettezze finanziarie e della crisi economica degli ultimi anni. Si è avuta così una sorta di singolare forbice tra giudizio positivo per la ricerca e giudizio assai negativo verso il principale organismo che in Italia la porta avanti.

Tale diffusa opinione è stata accreditata anche da osservatori e studiosi per altri versi acuti come A. Alesina e R. Giavazzi che, in contrasto con quanto sostenuto dalla Strategia di Lisbona, si sono posti la domanda: «Ma ha ragione chi sostiene che in Europa non ci sono soldi per la ricerca?». E rispondono: «Nel Vecchio Continente la spesa totale per Ricerca e Sviluppo (R&S) è più bassa che negli Stati Uniti, ma la differenza non è enorme. Negli anni Novanta, gli Stati Uniti assegnavano annualmente alla R&S il 2,8 per cento del PIL, contro il 2,3 per cento della Germania, il 2 della Gran Bretagna e l‘1,9 della Francia» (Goodbye Europa, cit., pp. 103-4). A parte la genericità dei dati (quale anno dei ’90?) e la mancanza di indicazione delle fonti, si potrebbe obiettare che l’Europa non è composta solo da Germania, Gran Bretagna e Francia, ma che - già da quando gli autori scrivevano il loro libro - comprende ben 27 paesi; e quindi citare la performance di sole tre nazioni (e per giunta tra quelle con la migliore performance) per criticare la Strategia di Lisbona che si riferisce all’EU27 è, per dirla con eleganza, un po’ fuori misura. Ed infatti la spesa complessiva dell’EU27 è, nella stima dell’Eurostat, l’1,9% del PIL per il 2008, mentre quella degli Stati Uniti è stimata per il 2008 al 2,76%.

Il quadro complessivo degli investimenti nei paesi dell’EU27 e in alcuni dei paesi più industrializzati del mondo, con i dati più aggiornati (in genere al 2008) è quello mostrato dalla figura 49. Anche in questo caso l’Italia – che non è in merito menzionata da Alesina e Giavazzi – si fa notare per la sua bassa performance rispetto ai più rilevanti paesi: la sua prestazione nell’ambito dell’EU27 si colloca nel gruppo dei ritardatari, venendo dopo di essa solo i paesi ex-socialisti (e non tutti) (vedi l’illustrazione grafica della figura 50).

 

Quadro 3 - L’arretramento in innovazione e ricerca dell’Italia

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Note e osservazioni